Non si può dire sempre no

In Veneto le attuali scelte portuali che rifiutano in toto lo sviluppo del terminal offshore e dei retroporti in pianura padana, a partire da quello padovano, rischiano di perdere un’opportunità importante di crescita, confinando il porto di Venezia in un’enclave isolata dal resto del trasporto marittimo.

I traffici commerciali provenienti dall’oriente, come pure quelli interni al Mediterraneo, sono in costante aumento. Le imbarcazioni non trasportano più piccoli carichi, ma raggiungono la portata di 22-25.000 TEU.

D’altronde è sotto gli occhi di tutti l’inarrestabile spostamento di merci attraverso semplici click on-line. Il progresso, giusto o sbagliato che sia, non si può arrestare e pertanto bisogna saperlo governare. Per farlo nel migliore dei modi è necessario coglierne gli aspetti positivi. La scelta è urgente perché è oggi che le cose si stanno consolidando.

Un caso per tutti è stato il trasferimento nel porto giuliano di una nave che faceva la spola tra l’Alto Adriatico e il Far East (cinese e sud-coreano). La compagnia di navigazione francese (Cma-Cgm) aveva deciso di impiegare una portacontainer da 8.500-9.000 TEU al posto di una da 6.000 perché la domanda del mercato lo richiedeva. Ma quella classe navale non può superare la soglia del Mose (profondità 11,5 m  di giorno e 10,5 m di notte) ed anche se ci riuscisse, perché in quel momento vuota o quasi, non ha lo spazio necessario per svoltare in sicurezza l’ansa del Canale dei Petroli, così da raggiungere il terminal Vecon (privato) o Montesyndial (pubblico) (gli standard della sicurezza sono stati inaspriti dalla Compagnia dei Piloti portuali di Venezia, in conformità ai parametri internazionali).

Dire di no, rimanere racchiusi in programmi e intenti che fanno parte del passato non ha mai portato niente di buono. Soprattutto quando i costanti rifiuti non sono affrancati da analisi e cifre realistiche.

È ragionevole partire dal presupposto che non tutte le grandi opere sono dannose. Alcune lo sono e altre no. Ad esempio non è stato dannoso realizzare la ferrovia tra l’800 e il ‘900. È la capacità di discernimento che consente di operare una scelta ponderata.

La costruzione del terminal offshore e del retroporto padovano non escludono di certo la ristrutturazione di Porto Marghera. Anzi, semmai è il contrario. Se Venezia saprà attrarre maggiori traffici commerciali, i quali tendono progressivamente a spostarsi sempre più verso il nord Europa, ne gioverà anche la ricollocazione di Porto Marghera in un rinnovato quadro internazionale. Si aprirebbero opportunità per nuovi accordi industriali con ingenti investimenti e verrebbero creati così nuovi posti di lavoro in settori ad alta redditività.

Ciò che tanti, troppi, non fanno è affiancare le cifre alle idee e ai propositi. Può Venezia limitarsi a movimentare fino a 1 – 1,2 mln di TEU/anno e concentrarli tutti su Marghera? Può tale concentrazione giustificare l’investimento pubblico di almeno 5 miliardi per la realizzazione della TAV Corridoio 5 tra Padova e Brescia?

Oggi il porto lagunare muove 600.000 TEU/anno, ma altri 400.000 vengono spediti dalle imprese del Nord-Est verso gli scali esteri con un aggravio di 300-400 €/TEU.

In Veneto, invece, ci si disinteressa della politica portuale e a livello nazionale si liquida il tutto a vantaggio di città con forti limitazioni nella movimentazione merci (vedi Trieste), ma dove governano amministrazioni amiche. È la politica della miopia.

A contrario, solo immaginando una grande banchina all’esterno della laguna e un collegamento con la terra ferma, compresi gli scali interni, il Veneto e l’intera economia italiana potrà pensare di divenire un interessante punto d’arrivo per la Via della Seta.

Non cavalcare i tempi che corrono porterà inevitabilmente ad una malattia molto grave: l’atrofia muscolare. Non possiamo più rimanere attaccati al palo.

Marco Destro

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